Ho finalmente trovato il tempo di leggere l’articolo di Luca de Biase sull’ecologia dell’attenzione; De Biase fa una interessante introduzione sulla nascita dell’economia dell’attenzione come base dello sviluppo dei media negli ultimi 25 anni (mi piace sottolineare che sono stati i media a creare l’economia dell’attenzione ma che, come dice anche De Biase, i media stessi sono diventati vittima dell’eccessiva frammentazione, dovuta ai canali digitali e anche ad Internet; in sostanza i media funzionavano bene, come compratori di attenzione, quando non erano che pochi e univoci nel messaggio).

L’articolo di De Biase prosegue con alcune considerazioni, sempre molto interessanti, sul passaggio da un economia post-industriale a un economia della conoscenza: a questo proposito viene spiegato il “colpo di coda” di coloro che vogliono ingabbiare l’economia della conoscenza negli schemi dell’economia industriale, quindi riducendo la conoscenza a bene di consumo tramite l’estensione della proprietà intellettuale. Cosa più importante però, si parla dell’inquinamento mediatico dato dalla ripetizione di pochi semplici messaggi come di una “Strategia della Disattenzione” così definita perché chi vuole diffondere un messaggio e influenzare una decisione trae vantaggio dal caos informativo, all’interno del quale le persone non sono più in grado di ragionare su un’azione ma compiono una scelta su base intuitiva, quindi ricorrendo alla prima idea che hanno in mente (che normalmente è quella che viene loro più spesso ripetuta). Questa strategia conduce però, come già detto, al caos e all’inquinamento semiotico, da cui deduco che il costo di questa pratica è continuamente crescente; una strategia probabilmente tanto praticata quanto poco intelligente nel lungo periodo.

A questa strategia De Biase oppone un valore di eco-sostenibilità dell’informazione che si ottiene - detto in breve - creando una simbiosi tra i diversi attori dell’informazione e dell’accessibilità all’informazione. De Biase parla di rapporti di interdipendenza chi fa informazione, e questo mi sembra molto intelligente. Personalmente credo che una strategia basata non sul messaggio urlato ma sul messaggio pieno di senso, e collaborativo tra diversi attori che hanno lo scopo comune di fare informazione e che non ci tengono a condizionare le persone ma le vogliono rendere più coscienti sia meraviglioso, da fare insomma. Questa strategia si oppone totalmente al concetto di competizione tra attori dell’informazioni, ma a mio parere può avere “successo” solo per l’appunto in uno scenario frammentato, in cui nessuno degli attori dell’informazioni e dell’accessibilità riesca ad avere un differenziale significativo di “potere” rispetto agli altri. Così è in molti ambiti (blogosfera, in generale), ma ad esempio non è così nel campo degli attori che danno accessibilità all’informazioni (tra questi vi è anche Google, che è almeno per l’Italia quasi un monopolista).

Veniamo alla famigerata pubblicità: sto provando a immaginare come potrebbe funzionare nel mondo della comunicazione pubblicitaria una strategia in cui non si tende a ripetere un messaggio (per quanto ciò venga a volte fatto in maniera calcolata e quasi scientifica) per influenzare le decisioni intuitive delle persone, ma al contrario chi comunica vada a lavorare sulla conoscenza delle persone per indurle a fare una scelta ragionata. Questo modo di fare comunicazione pubblicitaria potrebbe essere considerato impossibile, dato che la pubblicità è competizione con altri messaggi (pubblicitari e non) per sua definizione. Forse ci si può azzardare a dire che le aziende devono spostarsi da questo territorio competitivo (quantomeno quelle che lo faranno si sottrarranno alla poco intelligente competizione negli spazi media nonché alla crescita del “costo per contatto” spesso inversamente proporzionale alla “qualità del contatto”).
Il nuovo territorio potrebbe essere quello di una comunicazione collaborativa tra aziende e i loro potenziali clienti; un territorio in cui l’azienda non inquina, non lancia messaggi programmati dall’alto ma risponde a domande reali, espresse. Questo passa per l’analisi delle domande, ovviamente, ma passa anche per lo spostamento degli investimenti dalla comunicazione dai media generici (che ragionano secondo la “Strategia della Disattenzione” di cui parla De Biase) verso gli ambiti in cui è possibile sviluppare una relazione e mutualità (termine del secolo scorso, ma secondo me da ripristinare nell’uso comune) con le persone.

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