Se è probabile che i social networks, quantomeno quelli non specialistici e non legati ad alcuno scopo in particolare, vadano incontro ad una implosione dovuta all’eccesso di informazioni e all’eccesso di “amicizie” che una persona accetta (basta un click per accettare, come dire che non esiste quasi alcuna barriera ad accettare una persona - anche totalmente sconosciuta - nel proprio network), mi chiedo come possono le aziende avvicinarsi alle persone che nei social networks ci vivono, evitando di:

- rimanere intrappolate nelle confusione, senza emergere;
- aggiungere eccesso all’eccesso di comunicazione già presente;

Twitter è un caso, a mio parere, molto interessante e per certi versi opponibile a Facebook. Qui da noi si parla, come al solito superficialmente, quasi esclusivamente di quest’ultimo (perché ha raggiunto audience “importanti”) e si trascura tutto il resto (anche le forme del futuro). Anche su Twitter, comunque, c’è molta confusione…perché c’è tanto lifecasting, c’è tanta gente che è sul divano, sta bevendo un’aranciata, sta mangiando una mela, e deve necessariamente farcelo sapere. Non tutte le vite riescono ad essere interessanti allo stesso modo e c’è molta gente che, anche su strumenti “2.0″, mostra quel che la propria vita gli permette di mostrare; ma questo è un “fuori tema” (rispetto a questo post) che è legato a come viviamo, a quanto a lungo stiamo in ufficio, a quanto (poco) ci interessiamo alla nostra crescita e arricchimento personale (anzi a volte ci dedichiamo all’impoverimento, da cui i post su “sto mangiando un pizza, è molto buona”).
C’è però anche un’altra forma di condivisione su Twitter, che questo post del LA Times chiama mindcasting; si tratta di un modo per le persone di distillare i contenuti e i flussi informativi, rivolgendosi a fonti qualificate. Il punto è che Twitter, usato in questo modo, è “scienza”…nel senso che non è “avere sotto’occhio tutti i flussi informativi prodotti dal proprio network di amicizie reali/virtuali, anche quelli inutili” ma è “aprirsi ai flussi informativi di persone che non si conoscono necessariamente di persona, ma che possono produrre aricchimento, senso di ricevere novità, notizie riservate, in due parole notizie rilevanti”. E’ “scienza” perché non si tratta di accettare chiunque nel proprio network, ma si tratta di lavorare “quasi-scientificamente” alla scelta delle fonti.

Tornando alle aziende, la provocazione è quindi la seguente: i brand, secondo me, devono muoversi con un “ruolo chiarificatore” sui social networks; se ritengono di dover invece aggiungere chiasso o se non hanno il “materiale” per fare qualcosa di utile, devono invece starne fuori per evitare effetti controproducenti; il “ruolo chiarificatore” di cui parlo è quello che va contro alla tendenza in atto per cui ogni persona (o brand) che aggiungo al mio network è una potenziale fonte di confusione; un brand accettato nel proprio network dev’essere invece una fonte di chiarezza, perché:

- lancia messaggi che arricchiscono l’esperienza;
- comunica novità a cui c’è un motivo di interessarsi;
- lascia - al termine dell’esperienza - qualche valore;

Questi concetti sono - credo - banali, nel senso di basilari per ogni tipo di comunicazione uno-a-uno e uno-a-molti; il significato è che i brand devono distinguersi dal flusso dell’inutilità, anziché cercare di specularci sopra con altrettanto inutili scambi di gadget (il che è controproducente, ha un effetto che finisce presto e non lascia nulla nella mente delle persone da cui ci si vorrebbe far ricordare). Credo che anche i brand abbiano la responsabilità di comportarsi in maniera evoluta rispetto a masse che invece non lo fanno. Per cui, se è la confusione che regna e che rischia di far implodere i social networks, un ruolo utile per i brand (e non solo, ma per loro è utile nel senso che li può aiutare a fare business) è quello di comportarsi in maniera opposta all’utilizzo dominante di questi strumenti, anziché sfruttarne le distorsioni.

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