Penso spesso a quali sono le resistenze culturali (se ci sono) che impediscono agli italiani di avere a disposizione servizi come quelli che offre Starbuck’s ai suoi clienti. Non riesco a capire se si è stabilito un circolo vizioso per cui le aziende non offrono servizi che gli utenti non chiedono esplicitamente, e gli utenti non chiedono servizi dei quali non immaginano l’esistenza (perché le aziende non si sognano di offrirli…e spesso siamo isolati da ciò che viene creato fuori dai nostri confini).


Se di resistenza culturale si può parlare, è forse che siamo un pò troppo conservatori…nel senso che, ad esempio, pensiamo al bar come a un posto dove si beve il caffè; non riusciamo a immaginare che potrebbe essere un luogo dove, nello stesso modo in cui si passa il tempo con un buon caffè caldo, si può anche farlo in mille altri modi.
Invece sento troppo spesso, nei discorsi comuni e anche nell’ambiente professionale, applicare categorie troppo stringenti alla realtà: categorie basate sul passato e su un sotteso orgoglio di essere portatori di una semplicità e una purezza che, forse, si teme di perdere.

L’innovazione è quindi percepita come fonte di “promiscuità e mescolanza”, di “sfondamento di rassicuranti categorie”? Per questo si rifugge dall’innovazione (sia come utenti che come potenziali creatori)? Ci sono cause sociologiche (e antropologiche) per la scarsa ricerca di base e per la poca innovazione in Italia? O forse c’entra anche la scarsa competizione a cui sono abituate le imprese italiane, per cui non innovare o innovare in maniera moderata è anche un modo di proteggere, in uno scenario poco competitivo (quasi di cartello, dove la strategia “me too” è dominante), posizioni di rendita investendo il meno possibile?

Non lo so…ma sarebbe interessante indagare.

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